Semionova:"Dico solo grazie allo sport"
Alcuni sospettavano addirittura non fosse donna. Accuse scivolate dietro le gigantesche spalle. Uljana Semjonova ha dominato uno sport come pochi. Centro nell’Urss, figlia prediletta della Lettonia. ‘Ulj’: 2.13 m di altezza, 120 kg. Forte di suo grazie al fisico, eccellente grazie all’allenamento costante. L’anormalità l’ha sottoposta al dileggio, il prestigio sportivo l’ha riscattata. Una disfunzione ghiandolare l’ha quasi uccisa, da giovane. A 13 anni era 1.80 m. Alta dunque brava. Non contavano la mobilità azzerata, la fatica di portare in giro un corpo così ingombrante. E il diabete. Oggi, a 56 anni, cammina con una stampella e stare in piedi è una battaglia.
“E’ l’esempio di riscatto e affermazione per noi; per me, una continua fonte d’ispirazione” dice Vaira Vike-Freiberga, presidentessa della repubblica di Lettonia fino al 2007. In un recente sondaggio per i 90 anni della repubblica baltica, proprio l’ex-presidentessa e l’ex-giocatrice sono state indicate dalla popolazione lettone come le due donne più importanti della storia lettone. La Semjonova lavora a Riga, comitato olimpico, edificio art-nouveau in centro. Il suo ufficio divide il muro con l’Essential, la discoteca più famosa dei paesi baltici. Metafora perfetta dell’Est Europa.
Uljana dirige un fondo per ex-atleti in ristrettezze. Ne sa qualcosa, ha bisogno di cure costose, non ne parla. La Lettonia l’adora. Nell'edizione locale di "Amici" un concorrente ha proposto di devolverle parte del ricavato del televoto. C’è stato il record di chiamate. “Ho sempre vissuto non badando alla mia smisurata altezza, mi sento come gli altri. Nel basket, non me l’hanno fatta pesare. Fossi stata normale sarebbe stato più semplice. Ma la mia altezza mi ha permesso di essere una giocatrice conosciuta in tutto il mondo. Da normale, non sarebbe successo”.
E’ stata la prima cestista non americana nella Hall of Fame.
"Alla cerimonia ero con le star Nba. Andarono via allo scadere dell’ora per gli autografi, con ancora molti bambini da accontentare. Io rimasi, lo staff non capiva. I bimbi erano là per chiedermi l’autografo, dovevo farli felici. Continuai in albergo, tutta la sera. Prima che mi dimentichi, vi firmo due cartoline…”.
La leggenda dice che all’inizio al basket non pensasse proprio. Il ministero dello Sport aveva avviato un reclutamento nel paese, con un comunicato alla radio.
"Fui segnalata dall’insegnante di educazione fisica. Era professore all’accademia dello sport a Riga. Raimonds Karnitis, il mio futuro allenatore, venne a visionarmi. Due anni nelle giovanili, a 14 anni mi chiamarono. Non volevo trasferirmi a Riga. Oggi i giovani non vedono l’ora di lasciare casa. Ai miei tempi invece, con le frontiere chiuse, anche noi eravamo chiusi, impauriti di lasciare i nostri luoghi".
La fine della sua carriera è simbolica del regime sovietico. Cosa è successo?
"Andai in Spagna nell’87. Non per turismo. Ci avevo giocato tante volte, avevo visto tutto. Come in Italia, 45 volte, isole comprese, quasi ogni anno contro il Geas. Conosco Roma e Milano meglio della città vecchia a Riga. Ultima stagione, volevo mettere da parte qualcosa. Non avevo guadagnato niente in carriera, solo qualche regalo per le vittorie con la nazionale. L’ingaggio lo prese Mosca. Mi mandavano 400 dollari al mese, su 45.000 che mi spettavano. Li ritiravo in ambasciata, anche lì non si capacitavano come sopravvivessi, con il mio fisico e le mie esigenze alimentari. In pratica, prima che sbarcassi, Mosca pretese di avere i miei stipendi anticipati. Non ho potuti neanche vederli, i miei soldi. Arrivai e volevo già tornare. Ero a Madrid, in povertà; a Riga sarei stata bene. Ma la squadra vinceva, mi supplicarono di restare. Mi sentii male a deluderle, rimasi. Il Tintoretto fu una famiglia. Il presidente mi dava dei soldi extra per il mio nutrimento. Le compagne mi portavano al ristorante, mi facevano la spesa".
Cosa non le piaceva del suo sport?
"Amavo tutto. Se vuoi arrivare in alto, deve piacerti tutto. Anche gli allenamenti più duri: tutto è proiettato verso il successo. Forse gli arbitri, l’Urss era sempre penalizzata".
Per ragioni politiche?
"No, eravamo più atletiche. Il mondo si era stufato di vederci sempre vincere. Gli arbitri fecero di tutto. Mondiali ’83, Saa Paolo, finale contro gli Stati Uniti: giocammo 5 contro 7, i due arbitri con loro. All’intervallo, le titolari già con quattro falli. Le americane nei contrasti ci lasciavano quasi in reggiseno, neanche un fischio. Contro di noi, fallo al solo contatto. Eravamo più forti, vincemmo di un punto, canestro a 3 secondi dalla sirena. Quella volta pensai: 'Dio esiste. Ha visto che meritavamo noi e ci ha fatto vincere'. Fu la prima volta in tutta la mia vita che ho pianto di gioia".
Fonte Gazzetta dello Sport di Tancredi Palmeri (foto con la Semionova)
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