Basket e Olimpiadi, tra miti e leggende

Un’egemonia indiscussa, un nemico audace e un anno zero. L’egemonia dei mostri sacri americani, la resistenza dei giganti russi e l’anno zero, il 1992, che fa da spartiacque tra la storia e la leggenda. Prima e dopo il Dream Team. La squadra dei sogni, che strabiliò il mondo. Quella di Jordan, Magic, Bird, Ewing e compagnia, scesa sul campo di battaglia decorato con parquet di Barcellona per ristabilire la dittatura del canestro.
Fino al 1972, le Olimpiadi baskettare sono semplicemente una sfilata dei maestri americani. Sei ori filati, da Berlino ’36 a Città del Messico ’68. Non c’è partita. Cadono in finale, in rigoroso ordine d’apparizione, Canada, Francia, URSS (4 volte di seguito) e Jugoslavia (in Messico). Punteggi mai in discussione o quasi. E dire che gli USA giocano con i ragazzi delle università. Per due motivi, uno ufficiale e l’altro ufficioso. In teoria perché il COI vieta la partecipazione dei professionisti a stelle e strice (nel resto del mondo, almeno sulla carta, i cestisti sono dilettanti). Ma i grandi capi della Lega Pro statunitense non protestano. In fondo, la pallacanestro, l’hanno inventata loro. Ne conoscono segreti e virtù come nessuno. Non c’è bisogno delle superstar per portare a casa l’oro. Signori si nasce…
Ma il mondo cambia. La guerra fredda è al culmine. La rivalità tra le due superpotenze USA e URSS si riflette anche nello sport. I russi, ambiziosi e orgogliosi per natura, non si accontentano di minacciare il primato dello sbarco sulla luna e si propongono di strappare ai nemici giurati anche la supremazia sul parquet. Nella sanguinosa edizione di Monaco (’72), segnata dal terribile attentato palestinese al villaggio olimpico tedesco, succede l’insperato. Con tanto di polemica inclusa nel prezzo. La finale è, ovviamente, USA-URSS. La finale tra le due superpotenze è ancora ricordata come la partita più controversa e contestata della storia. Russi avanti per quasi tutta la gara, ma i tre secondi finali si apprestano a entrare nella storia. Punteggio fissato sul 49-48 per l’armata rossa. Doug Collins, allora play di belle speranze e futuro mentore di Jordan, si invola a canestro solo soletto. Fallo russo e tiri liberi a segno: 49-50. Subito il coach russo chiama timeout, ma l'arbitro sbagliando non lo concede e la panchina russa si agita. Il cronometro va colpevolmente avanti fino a segnare un solo secondo rimasto, l'arbitro non fa nulla e con un solo secondo i russi possono solo lanciare da fondocampo e sperare.Palla a Belov per il tiro dell’Ave Maria, ma a un secondo dalla fine tutti si fermano: non vale, gli USA festaggiano, esultano, corrono negli spogliatoi, la partita è finita e loro sono di nuovo campioni olimpici.Succede che il presidente della fiba in persona, il britannico William Jones, decide di scavalcare l'autorità dell'arbitro, dei cronometristi e del CIO, e impone la ripetizione di quei tre secondi ingiustamente sottratti ai russi.
Si va negli spogliatoi a richiamare i giocatori americani, che tornano in campo come spettri. La rimessa dal fondo adesso ha qualche speranza, con tre secondi, ma gli USA ormai non hanno la concentrazione per difendere, ancora increduli per quello che gli sta succedendo. Palla a Edeshko, lancio lungo per Belov, intercettato dalla difesa USA: nella metà campo statunitense è festa grande, ma non vale di nuovo. Stavolta si scomoda addirittura William Jones, segretario della FIBA, che dalla tribuna giura e spergiura di aver visto invasione della panchina americana qualche decimo prima del suono della sirena. E sul cronometro riappaiono i famosi tre secondi. L’URSS ripete lo schema: Edeshko per Belov, che stavolta fa centro: 51-50 e oro alla Russia. Inutili le proteste USA e lo sgomento dell’arbitro brasiliano Righetto, che addirittura si rifiuta di firmare il referto. La politica conquista il basket. E l’America comincia a preparare la vendetta.
A Montreal, quattro anni più tardi, gli Usa tornano al successo (sulla Jugoslavia), prima di boicottare l’edizione dell’80 a Mosca (a causa dell’invasione sovietica in Afghanistan), che andrà alla Jugoslavia. A Los Angeles, ancora oro USA (ma stavolta non c’è l’URSS) in finale sulla Spagna. Nelle fila statunitensi c’è tal Michale Jeffrey Jordan, ragazzino discreto con un pallone a spicchi fra le mani. Quindi Seul ’88, i Giochi che partorirono il sogno. In semifinale, il quintetto sovietico guidato da Sabonis fa letteralmente a polpette i giovani americani (in squadra Dan Mejerle e l’ammiraglio Robinson), partiti con fame di vendetta dell’umiliazione di Monaco. L’82-76 finale è anche troppo generoso con Stars & Stripes, che scivola al terzo posto.
L’appuntamento è per Barcellona ’92. Dove il buon commissioner David Stern, memore del bronzo della vergogna, chiede e ottiene il permesso di schierare i carichi pesanti. Undici All Star e solo un universitario (Laettner), giusto per mantenere la tradizione. Jordan, Pippen, Robinson, Ewing, Magic, Bird, Stockton, Malone, Barkley, Mullin e Drexler accettano con piacere l’invito. Sulla carta è la squadra più forte mai vista su un campo di pallacanestro (ne è la prova che solo Mullin non è stato inserito nella lista dei migliori 50 giocatori di tutti i tempi). Sulla carta e sul parquet. Gli dei del basket mondiale praticamente non si allenano. A una settimana dall’inizio del torneo sono ancora nel Principato di Monaco, impegnati tra golf e Casinò. Jordan sentenzierà: “non è in dubbio che vinceremo l’oro, l’unica incertezza è quale sarà lo scarto maggiore”. Gli avversari accennano qualche polemica accusandoli di spocchiosi. Ma alla palla a due la profezia si rivela certa. E’ un massacro: 116-48 all’Angola, 103-70 alla Croazia di Petrovic, Radja e Kukoc, 111-68 alla Germania, 127-83 all Brasile, 122-81 alla Spagna, 115-77 a Porto Rico, 127-76 alla Lituania e 117-85 di nuovo alla Croazia in finale. Solo un paio di statistiche per i più giovani: 43,75 punti di scarto, sempre oltre i 100 punti segnati (117 di media, 938 totali in otto uscite), mai più di 100 punti subiti. Il tutto giocando al 50% e col sorriso perennemente stampato sul volto. Bird fa praticamente lo spettatore e si dedica afirmare autografi. Magic quasi. Un’impressione di onnipotenza mai vista e mai ripetuta in nessuno sport. Gli USA tornano a regnare. Alla grande.
Da Barcellona in poi gli USA non perderanno più il vizio di schierare il Dream Team (ma quello di Barcellona rimarrà ineguagliabile, “the original). Di fatto arrivano anche gli ori di Atlanta e Sydney. Ad Atene, con una squadra troppo giovane e per certi versi inesperta, il capitombolo (già preannunciato e seguito da due clamorose debacle ai Mondiali) che vale solo un “misero” bronzo e che convince la NBA a riformare una squadra da sogno, quella che avrà il dovere di conquistare Pechino, con i vari Anthony, James e Bryant al comando.
Il milgior risultato, per le spedizioni azzurre, è l’argento, conquistato in due occasioni (Atene e Monaco). Ma quest’anno l’Italia non ci sarà, proprio come a Barcellona, sempre quando gli USA fanno sul serio. Peccato, ci si dovrà accontentare di godersi lo spettacolo da semplici spettatori. Ma con queste premesse, non è niente male.
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Fino al 1972, le Olimpiadi baskettare sono semplicemente una sfilata dei maestri americani. Sei ori filati, da Berlino ’36 a Città del Messico ’68. Non c’è partita. Cadono in finale, in rigoroso ordine d’apparizione, Canada, Francia, URSS (4 volte di seguito) e Jugoslavia (in Messico). Punteggi mai in discussione o quasi. E dire che gli USA giocano con i ragazzi delle università. Per due motivi, uno ufficiale e l’altro ufficioso. In teoria perché il COI vieta la partecipazione dei professionisti a stelle e strice (nel resto del mondo, almeno sulla carta, i cestisti sono dilettanti). Ma i grandi capi della Lega Pro statunitense non protestano. In fondo, la pallacanestro, l’hanno inventata loro. Ne conoscono segreti e virtù come nessuno. Non c’è bisogno delle superstar per portare a casa l’oro. Signori si nasce…
Ma il mondo cambia. La guerra fredda è al culmine. La rivalità tra le due superpotenze USA e URSS si riflette anche nello sport. I russi, ambiziosi e orgogliosi per natura, non si accontentano di minacciare il primato dello sbarco sulla luna e si propongono di strappare ai nemici giurati anche la supremazia sul parquet. Nella sanguinosa edizione di Monaco (’72), segnata dal terribile attentato palestinese al villaggio olimpico tedesco, succede l’insperato. Con tanto di polemica inclusa nel prezzo. La finale è, ovviamente, USA-URSS. La finale tra le due superpotenze è ancora ricordata come la partita più controversa e contestata della storia. Russi avanti per quasi tutta la gara, ma i tre secondi finali si apprestano a entrare nella storia. Punteggio fissato sul 49-48 per l’armata rossa. Doug Collins, allora play di belle speranze e futuro mentore di Jordan, si invola a canestro solo soletto. Fallo russo e tiri liberi a segno: 49-50. Subito il coach russo chiama timeout, ma l'arbitro sbagliando non lo concede e la panchina russa si agita. Il cronometro va colpevolmente avanti fino a segnare un solo secondo rimasto, l'arbitro non fa nulla e con un solo secondo i russi possono solo lanciare da fondocampo e sperare.Palla a Belov per il tiro dell’Ave Maria, ma a un secondo dalla fine tutti si fermano: non vale, gli USA festaggiano, esultano, corrono negli spogliatoi, la partita è finita e loro sono di nuovo campioni olimpici.Succede che il presidente della fiba in persona, il britannico William Jones, decide di scavalcare l'autorità dell'arbitro, dei cronometristi e del CIO, e impone la ripetizione di quei tre secondi ingiustamente sottratti ai russi.
Si va negli spogliatoi a richiamare i giocatori americani, che tornano in campo come spettri. La rimessa dal fondo adesso ha qualche speranza, con tre secondi, ma gli USA ormai non hanno la concentrazione per difendere, ancora increduli per quello che gli sta succedendo. Palla a Edeshko, lancio lungo per Belov, intercettato dalla difesa USA: nella metà campo statunitense è festa grande, ma non vale di nuovo. Stavolta si scomoda addirittura William Jones, segretario della FIBA, che dalla tribuna giura e spergiura di aver visto invasione della panchina americana qualche decimo prima del suono della sirena. E sul cronometro riappaiono i famosi tre secondi. L’URSS ripete lo schema: Edeshko per Belov, che stavolta fa centro: 51-50 e oro alla Russia. Inutili le proteste USA e lo sgomento dell’arbitro brasiliano Righetto, che addirittura si rifiuta di firmare il referto. La politica conquista il basket. E l’America comincia a preparare la vendetta.
A Montreal, quattro anni più tardi, gli Usa tornano al successo (sulla Jugoslavia), prima di boicottare l’edizione dell’80 a Mosca (a causa dell’invasione sovietica in Afghanistan), che andrà alla Jugoslavia. A Los Angeles, ancora oro USA (ma stavolta non c’è l’URSS) in finale sulla Spagna. Nelle fila statunitensi c’è tal Michale Jeffrey Jordan, ragazzino discreto con un pallone a spicchi fra le mani. Quindi Seul ’88, i Giochi che partorirono il sogno. In semifinale, il quintetto sovietico guidato da Sabonis fa letteralmente a polpette i giovani americani (in squadra Dan Mejerle e l’ammiraglio Robinson), partiti con fame di vendetta dell’umiliazione di Monaco. L’82-76 finale è anche troppo generoso con Stars & Stripes, che scivola al terzo posto.
L’appuntamento è per Barcellona ’92. Dove il buon commissioner David Stern, memore del bronzo della vergogna, chiede e ottiene il permesso di schierare i carichi pesanti. Undici All Star e solo un universitario (Laettner), giusto per mantenere la tradizione. Jordan, Pippen, Robinson, Ewing, Magic, Bird, Stockton, Malone, Barkley, Mullin e Drexler accettano con piacere l’invito. Sulla carta è la squadra più forte mai vista su un campo di pallacanestro (ne è la prova che solo Mullin non è stato inserito nella lista dei migliori 50 giocatori di tutti i tempi). Sulla carta e sul parquet. Gli dei del basket mondiale praticamente non si allenano. A una settimana dall’inizio del torneo sono ancora nel Principato di Monaco, impegnati tra golf e Casinò. Jordan sentenzierà: “non è in dubbio che vinceremo l’oro, l’unica incertezza è quale sarà lo scarto maggiore”. Gli avversari accennano qualche polemica accusandoli di spocchiosi. Ma alla palla a due la profezia si rivela certa. E’ un massacro: 116-48 all’Angola, 103-70 alla Croazia di Petrovic, Radja e Kukoc, 111-68 alla Germania, 127-83 all Brasile, 122-81 alla Spagna, 115-77 a Porto Rico, 127-76 alla Lituania e 117-85 di nuovo alla Croazia in finale. Solo un paio di statistiche per i più giovani: 43,75 punti di scarto, sempre oltre i 100 punti segnati (117 di media, 938 totali in otto uscite), mai più di 100 punti subiti. Il tutto giocando al 50% e col sorriso perennemente stampato sul volto. Bird fa praticamente lo spettatore e si dedica afirmare autografi. Magic quasi. Un’impressione di onnipotenza mai vista e mai ripetuta in nessuno sport. Gli USA tornano a regnare. Alla grande.
Da Barcellona in poi gli USA non perderanno più il vizio di schierare il Dream Team (ma quello di Barcellona rimarrà ineguagliabile, “the original). Di fatto arrivano anche gli ori di Atlanta e Sydney. Ad Atene, con una squadra troppo giovane e per certi versi inesperta, il capitombolo (già preannunciato e seguito da due clamorose debacle ai Mondiali) che vale solo un “misero” bronzo e che convince la NBA a riformare una squadra da sogno, quella che avrà il dovere di conquistare Pechino, con i vari Anthony, James e Bryant al comando.
Il milgior risultato, per le spedizioni azzurre, è l’argento, conquistato in due occasioni (Atene e Monaco). Ma quest’anno l’Italia non ci sarà, proprio come a Barcellona, sempre quando gli USA fanno sul serio. Peccato, ci si dovrà accontentare di godersi lo spettacolo da semplici spettatori. Ma con queste premesse, non è niente male.
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