Lutto nel basket pavese

Pavia, l'addio al Signor Bandiera
Con Riccardo Bandiera se ne va un pezzo di storia del basket di Pavia. E se la scena pubblica da metà Anni Ottanta e per i due lustri successivi fu occupata dalla moglie Barbara, la Presidentessa, Riccardo è stato una presenza. Discreta e importante.
L’Ingegnere, come lo conoscono quelli del basket del Ticino, aveva 49 anni. E quel giorno, il 25 agosto, un sabato, sbarcò all’aeroporto milanese della Malpensa - proveniente dal Brasile via Stati Uniti - Oscar Schmidt. Che per il mondo, se non è stato il Pelé della palla a spicchi, poco ci manca. L’immagine fissa il momento del primo incontro tra i signori Bandiera e i coniugi Schmidt. Con Oscar e Riccardo ci sono anche le rispettive mogli: Cristina e Barbara. E’ il prologo di tre stagioni intense della pallacanestro a Pavia: vincente la prima, amara la seconda con la retrocessione dall’A1, densa di rimpianto la terza, senza la risalita. Sarà l’anticamera della fine di una storia. Durata quasi due lustri. E iniziata a metà anni Ottanta. Quando il basket stava diventando l’immagine stessa di Pavia. Sul versante della sponsorizzazione era da poco terminata la seconda era-Necchi, lo storico abbinamento che segnò gli indimenticabili anni Cinquanta. Pavia voleva la serie A e bisognava darsi da fare. Lucio Aricò si inventò il Basket Pool. Vista l’impossibilità di attirare i grandi nomi dell’imprenditoria locale e nazionale, la svolta fu quella di una gestione corale su base allargata. E dalla finale per la serie A persa a Pesaro, Riccardo Bandiera, accompagnato dalla moglie Barbara, aveva seguito quella che dopo pochi anni sarebbe diventata la squadra di famiglia. Era la primavera del 1984. «Aveva dignità di presenza senza essere invadente», ricorda oggi Aricò, presidente negli anni della serie B. «Lo ricordo con affetto e amicizia, per quel suo pessimismo venato di realismo che sapeva subito volgere in fiducia anche nei momenti difficili vissuti dalla squadra», aggiunge Giampaolo Borella, direttore generale del comune di Pavia e allora dirigente accompagnatore. Titolare di un’officina di carte e valori a Quinto de Stampi nel Milanese, Riccardo Bandiera cominciò come sostenitore del Basket Pool. E quando la moglie Barbara arrivò alla presidenza nel 1985 la seguì nella sua scelta. Sempre rispettoso delle di lei aspirazioni. Perché l’immagine pubblica dell’Annabella Pavia erano Lady Barbara e Giuliano Ravizza. La favola era quella di un palazzetto da poco inaugurato e sempre affollato, teatro di una squadra irriducibile. «Se chiudo gli occhi, però, rivedo Riccardo Bandiera. Coinvolto economicamente e con passione e più presente di tanti dirigenti ufficiali. Positivo e propositivo, buono e generoso. Che aveva scelto di interpretare un ruolo non facile, lui nell’ombra della moglie in una società, la nostra, comunque latina e maschilista», dice Marco Calamai, condottiero dalla panchina di quell’avventura e da poco tornato a Pavia come ispiratore del progetto Special Team Annabella ‘87, il basket oltre le barriere del disagio. Sul versante allenatori seguirà la parentesi di Arnaldo Taurisano, mentre uscirà di scena l’Annabella e arriveranno i giorni della Fernet Branca. Quelli legati al nome di Tonino Zorzi, il coach protagonista prima dell’ascesa sportiva e poi della caduta. E soprattutto di scontri accesi con Barbara Bandiera nel nome di Oscar. Lì davvero la Pallacanestro Pavia divenne una sfida per tutta la famiglia Bandiera. Furono gli anni delle scelte più difficili, di impegni economici gravosi in un mondo - quello della pallacanestro italiana - che stava confondendo fiducia ed entusiasmo con esagerazione e sovradimensionamento. Ci furono cadute rovinose. Tra queste quella di Pavia. Sul piano sportivo sono state però stagioni intense. Forse irripetibili. Domenica la notizia della morte di Riccardo Bandiera è andata diffondendosi al PalaRavizza mentre l’Edimes stava giocando la partita di campionato contro Sassari. Correva di bocca in bocca tra ex dirigenti, semplici sportivi e tra i giocatori di quella squadra. L’Ingegnere, pavese d’adozione, ma milanese dentro, aveva vissuto l’inserimento in questa realtà come una sfida. Non è più entrato al palasport, ma andava a spasso come tanti, talvolta la domenica, poco distante da via Treves. Informato sempre sulle vicende del basket. Senz’altro con dentro un pizzico di umanissima rivalsa: «Vediamo come se la cavano, ‘stì pavesi, senza i Bandiera». Non c’è stato il modo di chiederglielo. Se però avesse pronunciato questa frase, l’avremmo capito.

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