Graffiti sui muri d’Europa

Veni, vidi, vici. Beh, quasi. Se si eccettuano gli scivoloni di Barcellona e Mosca (soprattutto, se si vuole considerarli solo scivoloni accidentali), tutto bene.
Il grande circo della NBA ha fatto tappa in Europa, sempre e comunque un gran bell’evento, a prescindere dai rilievi ipercritici di chi “gli ammmmerigani” li vede sempre con un po’ di sospetto.
Bilancio finale? Le fredde cifre parlano di 2-0 nella competizione con formula a torneo (dove, includendo i vari McDonald’s del passato) la NBA è ancora imbattuta contro squadre del vecchio continente; e di 6-2 nel computo totale (Sixers 1-1, Spurs 2-0, Suns 2-0, Clippers 1-1).
Sono numeri che valgono qualcosa? Siamo scettici, se ce lo permettete. Che indicazioni si possono trarre, ad esempio, se la stessa squadra che cede in maniera inguardabile al Barcellona pochi giorni dopo rifila un ventello (non guardate il punteggio finale, era un ventello finché aveva senso giocare) al CSKA Mosca, ovvero la squadra che — insieme alle due greche — minaccia di uccidere la prossima Eurolega dopo aver già alzato al cielo l’ultimo trofeo?
Però, se proprio bisogna trarre qualche conclusione da una settimana di grande basket globale, non vogliamo tirarci indietro, e due cose (su ciò che abbiamo visto di persona) le abbozziamo volentieri. Partiamo dagli Spurs.
San Antonio si conferma (oltre che tra le favorite per il titolo NBA) come quella - tra le squadre della Lega di David Stern - che meno di tutte desidera esporsi a possibili figuracce.
Vorrebbero vincere anche a biglie in spiaggia, contro bambini di sette anni, figurarsi quando davanti c’è comunque una sana competizione europea.
Doveva essere lo show di TP e così è stato (compresa la folle idea di andare a schiacciare sotto gli occhi dei 10.000 e passa di Bercy, idea terminata “inferrandosi” brutalmente con conseguente caduta a terra, sghignazzi a scena aperta del pubblico di casa e faccia da monello buona per le telecamere del fidanzatino di Eva Longoria — presente, ovviamente, a due passi dalla panchina di coach Pop).
È partito Oberto in frontline con Duncan, ma Horry veniva scongelato presto (troppo presto, in ottica stagione regolare?) dalla panchina.
Qualcuno fra Francisco Elson e Jackie Butler deve dare quella mano che oggi sembra ancora lontano dal poter fornire.
Phoenix: più bello vederli in allenamento (quando giocano col cronometro dei 24 secondi settato sui 7 — e su venti/trenta possessi la sirena che sancisce il tempo scaduto suona solo due volte!) che in partita.
Il mistero Stoudemire per ora rimane tale: c’è chi dice che il problema è solo nella sua testa, e a volte verrebbe da essere d’accordo; chi cita come principale avversità l’eccessiva pressione che lo circonda — e forse le aspettative più alte su Stoudemire le ha lo stesso Stoudemire; chi, infine, quel ginocchio (e quel corpo bionico) lo vede ancora ingolfato. “Only time will tell”, ma D’Antoni e Nash sono preoccupati, fidatevi.
Philadelphia: Iverson sarà sempre Iverson, ma il resto è davvero poca cosa. Qualche tiro di Korver, qualche stoppata (OK, parecchie stoppate!) di Dalembert, le mani da pianista (e la mobilità di un palo della luce) di Webber, il talento probabilmente in crescita di Iguodala.
I Sixers non sembrano avere un progetto, men che meno sembra poterli aiutare Mo Cheeks dalla panca.
Questo per le squadre viste (sorry, fino a Mosca per i Clippers non ci siamo arrivati…). Altre impressioni generali? Mettiamola così: durante la settimana, in sala stampa, ci sono state parole (o frasi) più gettonate di altre.
Cambiavano i personaggi seduti al tavolo delle interviste, ma non lo script che sembravano “condannati” a recitare. Allora via con una lunga litania di “massimo rispetto per le squadre europee” (poi prontamente negato dalla figuraccia dei Sixers di fronte al Barça); “ottimi giocatori in campo e ottimi allenatori in panchina” (vietato chiedere di fare qualche nome, pena imbarazzanti silenzi…); “le regole unificate avrebbero cambiato gli equilibri in campo” (e ci sta, magari).
Quanto di più lontano, verrebbe da dire, da un’analisi che avesse un minimo di profondità e un reale tentativo di guardare le cose come stanno.
Quanto di più lontano, verrebbe da dire, dalle parole di uno come Ettore Messina che in dieci minuti ha raccontato più verità di quelle ascoltate in dieci conferenze stampa messe assieme. Ma questa è un’altra storia… e magari ve la racconto un’altra volta.
Il grande circo della NBA ha fatto tappa in Europa, sempre e comunque un gran bell’evento, a prescindere dai rilievi ipercritici di chi “gli ammmmerigani” li vede sempre con un po’ di sospetto.
Bilancio finale? Le fredde cifre parlano di 2-0 nella competizione con formula a torneo (dove, includendo i vari McDonald’s del passato) la NBA è ancora imbattuta contro squadre del vecchio continente; e di 6-2 nel computo totale (Sixers 1-1, Spurs 2-0, Suns 2-0, Clippers 1-1).
Sono numeri che valgono qualcosa? Siamo scettici, se ce lo permettete. Che indicazioni si possono trarre, ad esempio, se la stessa squadra che cede in maniera inguardabile al Barcellona pochi giorni dopo rifila un ventello (non guardate il punteggio finale, era un ventello finché aveva senso giocare) al CSKA Mosca, ovvero la squadra che — insieme alle due greche — minaccia di uccidere la prossima Eurolega dopo aver già alzato al cielo l’ultimo trofeo?
Però, se proprio bisogna trarre qualche conclusione da una settimana di grande basket globale, non vogliamo tirarci indietro, e due cose (su ciò che abbiamo visto di persona) le abbozziamo volentieri. Partiamo dagli Spurs.
San Antonio si conferma (oltre che tra le favorite per il titolo NBA) come quella - tra le squadre della Lega di David Stern - che meno di tutte desidera esporsi a possibili figuracce.
Vorrebbero vincere anche a biglie in spiaggia, contro bambini di sette anni, figurarsi quando davanti c’è comunque una sana competizione europea.

Doveva essere lo show di TP e così è stato (compresa la folle idea di andare a schiacciare sotto gli occhi dei 10.000 e passa di Bercy, idea terminata “inferrandosi” brutalmente con conseguente caduta a terra, sghignazzi a scena aperta del pubblico di casa e faccia da monello buona per le telecamere del fidanzatino di Eva Longoria — presente, ovviamente, a due passi dalla panchina di coach Pop).
È partito Oberto in frontline con Duncan, ma Horry veniva scongelato presto (troppo presto, in ottica stagione regolare?) dalla panchina.
Qualcuno fra Francisco Elson e Jackie Butler deve dare quella mano che oggi sembra ancora lontano dal poter fornire.
Phoenix: più bello vederli in allenamento (quando giocano col cronometro dei 24 secondi settato sui 7 — e su venti/trenta possessi la sirena che sancisce il tempo scaduto suona solo due volte!) che in partita.
Il mistero Stoudemire per ora rimane tale: c’è chi dice che il problema è solo nella sua testa, e a volte verrebbe da essere d’accordo; chi cita come principale avversità l’eccessiva pressione che lo circonda — e forse le aspettative più alte su Stoudemire le ha lo stesso Stoudemire; chi, infine, quel ginocchio (e quel corpo bionico) lo vede ancora ingolfato. “Only time will tell”, ma D’Antoni e Nash sono preoccupati, fidatevi.
Philadelphia: Iverson sarà sempre Iverson, ma il resto è davvero poca cosa. Qualche tiro di Korver, qualche stoppata (OK, parecchie stoppate!) di Dalembert, le mani da pianista (e la mobilità di un palo della luce) di Webber, il talento probabilmente in crescita di Iguodala.

Questo per le squadre viste (sorry, fino a Mosca per i Clippers non ci siamo arrivati…). Altre impressioni generali? Mettiamola così: durante la settimana, in sala stampa, ci sono state parole (o frasi) più gettonate di altre.
Cambiavano i personaggi seduti al tavolo delle interviste, ma non lo script che sembravano “condannati” a recitare. Allora via con una lunga litania di “massimo rispetto per le squadre europee” (poi prontamente negato dalla figuraccia dei Sixers di fronte al Barça); “ottimi giocatori in campo e ottimi allenatori in panchina” (vietato chiedere di fare qualche nome, pena imbarazzanti silenzi…); “le regole unificate avrebbero cambiato gli equilibri in campo” (e ci sta, magari).
Quanto di più lontano, verrebbe da dire, da un’analisi che avesse un minimo di profondità e un reale tentativo di guardare le cose come stanno.
Quanto di più lontano, verrebbe da dire, dalle parole di uno come Ettore Messina che in dieci minuti ha raccontato più verità di quelle ascoltate in dieci conferenze stampa messe assieme. Ma questa è un’altra storia… e magari ve la racconto un’altra volta.
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