Posso giocare?

Veramente una bella ricerca fatta dal mio amico "Alex" e riportato nel suo blog: basketbhall. Delle valide considerazioni sull'etica sportiva, ricca di spunti di riflessione e dialogo: e come ormai accade regolarmente, un copia ed incolla sul mio blog.

"Immaginiamo una scena: due "capitani" fanno le squadre per giocare. Sceglie il primo, poi il secondo, di nuovo il primo e così via. Alla fine, proprio perché non c’è nessun altro e serve il numero, viene scelto anche quello meno bravo. Magari è basso, o mingherlino, o cicciotto, o ha gli occhiali, o tira come se si fosse slogato la spalla, o non ha mai il coraggio di tirare, insomma avete capito: quello scarso. Ma gli piace giocare!
Immaginamone un’altra: arriviamo al campetto e lo troviamo occupato. "Posso giocare anche io?". Aspetta il tuo turno. Che arriva solo se qualcuno si fa male, o se mentre aspetti arrivano altri e fate una squadra, pronti a prendere il posto degli sconfitti nella partita in corso. Come sui playgrounds americani, gioca chi vince e chi perde si siede.
Cosa hanno in comune queste situazioni? Chi gioca parla di competizione; chi non gioca, dice discriminazione.
Uno dei temi trattati dall’etica dello sport è l’accesso al gioco: bisogna avere certe qualità per poter praticare sport? Ce lo possono impedire? Le donne, gli appartenenti alle minoranze etniche o culturali, chi "non ha il fisico", sono storicamente stati esclusi dalla pratica sportiva. Lo sport così come lo conosciamo è una evoluzione di un gesto culturale decisamente british. Solo il gentleman, vale a dire l’inglese ricco, bianco ovviamente, poteva dedicare tempo a qualcosa che non servisse a mettere il pane in tavola per la famiglia. Sono nati il rugby, il cricket, l’equitazione ha raggiunto diversi livelli (gare con i cavalli l’uomo le fa da sempre), il tennis, il ciclismo. Diventando sport e non semplice passatempo, la pratica non ha perso la sua connotazione discriminatoria.
Le cose stanno cambiando, ovvio: basta accendere la tv e vedere le gare professionistiche, ci sono anche minoranze e donne. Per non parlare degli sport per disabili/diversamente abili. La pallacanestro per esempio si gioca anche in carrozzina, e ci sono grandi talenti, grandi tiratori, tanto bravi che sarebbe sciocco (non solo discriminatorio) togliere loro la possibilità di mostrare quel che valgono e di divertirsi, di giocare.
Jane English, filosofa americana, sostiene che l’accesso allo sport deve essere garantito a tutti per una ragione ben precisa: lo sport realizza quelli che lei chiama basic benefits, benefici fondamentali. Tra questi, la salute fisica e mentale, il divertimento, la socializzazione. Sarebbe il caso di porci la questione se questi benefici siano davvero fondamentali per l’essere umano; possiamo dare per scontato, però, questo presupposto psico-antropologico: le persone desiderano sentirsi meglio, socializzare e divertirsi. La ricerca filosofica non ha bisogno (anche se ha la capacità) di spingersi a indagare la validità del presupposto.
Quindi, dato che stiamo meglio se facciamo sport, lo sport dovrebbe essere libero per tutti. Di più, in un contesto rawlsiano la English sostiene che per avere giustizia sociale è necessario che l’accesso ai basic benefits sia garantito a tutti.
Successivamente, i basic benefits vengono distinti dagli scarce benefits, ovvero i beni scarsi, quelli di cui si impadroniscono coloro che raggiungono i massimi livelli della competizione: fama, ricchezza. I professionisti hanno i beni scarsi, ma questi non sono indispensabili per stare bene, bastano (e sono necessari) quelli fondamentali.
Roosvelt, il quadripresidente USA, avviò il New Deal per risollevare l’economia del proprio Paese; tra gli stanziamenti di fondi, molti andavano nella costruzione di campi sportivi. La spiegazione è logica: cittadini sani sono soldati pronti. Ma, per quel meccanismo che chiamiamo eterogenesi dei fini, si concausa anche un effetto benefico: ci sono cittadini sani! E senza spendere denaro: i campi erano pubblici.
Ora, forse c’è un problema: non sembra che un provvedimento del genere costringa tutti a fare sport? Possiamo ritenere lecito che le guide di una società stabiliscano che i cittadini debbano praticare sport "per il loro bene"? Lo "sport per il tuo bene" è sullo stesso livello di qualsiasi altra decisione "per il tuo bene" presa dai governanti? Rimane sempre una società giusta?
Al momento non riesco a trovare argomentazioni dettagliate per differenziare lo sport da, per esempio, una politica di limpieza de sangre (in Spagna l’Inquisizione rilasciava attestati di pulizia del sangue, in modo da dimostrare che il portatore non aveva sangue infedele - moro o ebreo - nelle vene) o di selezione della razza (gli ariani…). Anche perché effettivamente lo sport è un mezzo per migliorare la "razza" umana. Siamo sempre più alti, più longevi, più forti, più in salute.
Ma intuitivamente (una forma di intuizionismo popolano, quasi utilitarismo, o quasi etica della simpatia) si comprende che è profondamente ingiusto negare a qualcuno la possibilità di giocare. Credo che la strada giusta (tanto nella ricerca quanto nella vita quotidiana) sia insistere sui benefici fondamentali."

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