Nato per giocare a basket

"Andava a canestro in qualunque modo". "Quando gli guardi le mani e gli occhi, lui ha già fatto canestro". Parola e musica di Nikos Lotsos, agente ma prima ancora amico di Alphonso Ford. Parole semplici ma altisonanti che descrivono al meglio il giocatore Ford ma che in un certo senso fanno trasparire anche lo spirito e l'animo del Ford uomo che in pochi possono permettersi dire di conoscere a fondo, soprattutto negli anni in cui scendeva in campo sapendo quale avversario doveva affrontare quotidianamente. A distanza di due anni da quel tragico giorno l'unica cosa che ci manda avanti come suoi fans è tenere vivo il ricordo delle sue imprese sul campo, di ciò che lo ha reso famoso in tutta Europa. ![]() ![]() ![]() ![]() Al termine della stagione con Siena, Alphonso prende in considerazione l'ipotesi di smettere con il basket giocato, di tornare nel suo Mississippi e vivere in tranquillità. Ma per la fortuna del popolo biancorosso due mesi dopo torna sui suoi passi e firma per la Scavolini, l'amore per il basket era comunque forte e nonostante il destino avesse già in parte scritto la sua storia, Alphonso sapeva che poteva dominare il gioco e la malattia, una volta ancora. Una stagione quella in riva all'Adriatico semplicemente stellare, giocate e numeri che nella città di Rossini non si vedevano oramai da anni, dai tempi del duo Cook e Daye. ![]() Dopo una stagione stellare, arrivò anche il rinnovo, per i tifosi la notizia fu accolta come una vittoria, il campione aveva scelto ancora di vestire la maglia biancorossa, avremmo avuto il nostro condottiero. Poi invece quel 26 Agosto del 2004 arrivò la prima dolorosa notizia che fu solo l'anticamera alla tragedia che gettò nella disperazione, qualche giorno più tardi, l'intero mondo della pallacanestro.
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Per sempre nel cuore dei tifosi
Quando arrivò alla Scavolini, anno uno dell’era Amadio, non tutti si resero bene conto di quello che stava accadendo. Alphonso Ford era stato capocannoniere di passate euroleghe con casacche greche e la puzza sotto il naso dei pesaresi non permetteva di comprendere sino in fondo che razza di semidio cestistico che era sbarcato in città per vestire i propri colori. Veniva da un anno a Siena, come al solito super, come tutte le sue annate del resto, eppure, il suo arrivo non fu accolto da ovazioni generali. Un po’ perché in passato le ovazioni trovarono poi riscontri amari in bocca, tipo gli Esposito, i Todd Day e i Gatling, un po’ perché la luce del diamante nero del Mississipi venne in parte oscurata dall’altro arrivo eccellente di quell anno: Sasha Djordjevic. Ma quel signore discreto in pubblico, dal fisico tozzo e le movenze felpate fece parlare il suo portavoce da sempre più indicato: il campo. Cominciò in sordina, quasi in punta di piedi nelle prime partite, come volesse dar ragione ai propri inguaribili detrattori, per poi piazzare la zampata nel momento più inaspettato. Ma poi, riscaldati i muscoli di ebano, iniziò una marcia inarrestabile, culminata in regular season con prestazioni epiche, come ad esempio i 39 punti rifilati ad un attonita e sbalordita Fortitudo, che sbarcata nell’astronave Bpa, trovò per l’appunto un marziano ad aspet
tarla, Ford, che crivellò le retine da ogni punto possibile per 40 minuti senza minimamente risentire di qualsiasi girandola di mastini attaccatigli alle calcagna dal maestro Jasmin Repesa. Alphonso era così: essenziale e spettacolare allo stesso tempo.
La sua capacità di dare del tu al canestro era talmente sublimata ad alti livelli, che ogni suo gesto, impossibile per gli altri comuni mortali, era fatto con una naturalezza e una semplicità tale da far credere a molti che in fondo, non era così difficile calcare un parquet in quel modo. In realtà, quel che ai profani sembrava semplice, per gli avversari sul campo erano solo coltellate, stilettate di bisturi nella schiena, portate con precisione chirurgica che alla lunga demolivano anche il più assatanato difensore sul campo. A Pesaro non ci siamo goduti Alphonso come un qualcosa di prezioso nel momento in cui la sua meteora si posò su di noi, solo perché la magia che scaturiva dalla palla a spicchi, quando era in mani sue, era talmente all’ordine del giorno durante ogni match che giocava, da apparire normale. Djordjevic era molto più personaggio, più che in campo, fuori. Parlava con la stampa e sfruttava col suo sguardo magnetico e la lingua suadente tutta la sua sapienza di vecchio volpone dei canestri per ammaliare i tifosi. Ford invece era tanto semplicemente grandioso in campo, quanto discreto e semplice fuori. Forse per nascondere il mondo dalla sua malattia, ma anche a causa del suo carattere, Alphonso non chiedeva nulla agli altri, ma cercava sempre da se stesso le forze per andare avanti. I compagni lo ricordano come il più solidale e amico. Uno che voleva bene a tutti, soprattutto ai più deboli, come i ragazzi juniores che si allenavano con la prima squadra, i quali da lui avevano sempre una parola in più, un sorriso e una pacca sulle spalle.
Le statistiche finali di un giocatore già minato da tempo dal male testimoniano, se ancora ce ne fosse bisogno la totalità della sua arte sul campo e comunque non è giusto ridurre a sterili numeri le gesta del grande campione che è stato. Ma agli occhi dei tifosi biancorossi rimane intatta gara tre dei quarti di finale playoff contro Napoli, dove, con una gamba infortunata, in un eroico terzo quarto, prese per mano tutti i compagni portando la squadra alla vittoria contro ogni pronostico. In semifinale con Siena fece un canestro impossibile, tirando da dietro la linea del tabellone, sorvolando lo stesso con una parabola disegnata geometricamente come con un compasso. Sembrava che Dio in persona avesse preso quella palla e l’avesse depositata in fondo al cesto. Forse era un avviso per dirgli che presto l’avrebbe chiamato a giocare con sé, là dove le partite non hanno mai fine e nelle sterminate praterie in mezzo alle nuvole avrebbe continuato per sempre a muoversi con quei suoi irresistibili passi felpati, quelli del Puma di Greenwood, quelli di Alphonso Ford.
di Matteo Fattori
da PesaroSport.com
tarla, Ford, che crivellò le retine da ogni punto possibile per 40 minuti senza minimamente risentire di qualsiasi girandola di mastini attaccatigli alle calcagna dal maestro Jasmin Repesa. Alphonso era così: essenziale e spettacolare allo stesso tempo.


di Matteo Fattori
da PesaroSport.com
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