MENEGHIN È PER SEMPRE

Da Famiglia Cristiana articolo di Elisa Chiari

DINO, LEGGENDA DEL BASKET, RACCONTA IL GIOCO DI FAMIGLIA
Un nome simbolo della pallacanestro italiana che resterà tale anche dopo il ritiro di Andrea: sarà improbabile in futuro rivedere un padre e un figlio avversari in Serie A.
È successo ai Maldini, ai Mazzola, ai Cagnotto. A volte, anche se l’arte è difficile da tramandare, lo sport s’inventa una dinastia. I padri escono dal campo e i figli entrano. Se tutto va bene l’ex figlio d’arte diventa campione e l’ex campione diventa "il padre di...". Poi un giorno anche i figli lasciano e la storia gira altrove.
Ha appena lasciato, fermato dal fisico, Andrea Meneghin, figlio di Dino. Allenerà a Varese, continuerà a giocare a pallacanestro, per gioco, in Serie C. Eppure lui e Dino resteranno per sempre, esemplari unici nel panorama del talento ereditario.
  • Dino, suo figlio non è entrato dopo di lei, vi siete incontrati da avversari in Serie A, nel 1990.

«Andrea aveva 16 anni, io 40. È stata un’emozione fortissima, una grande soddisfazione per lui. Quando l’ho visto là in mezzo così magro mi sono sentito vecchissimo. Ho fatto fatica a giocargli contro, guardavo come si muoveva, mi preoccupavo dei contrasti duri. Lì ho capito che mai avrei potuto stare in squadra con lui, sarebbe prevalso l’istinto di proteggerlo».

  • A 12 anni dal ritiro, Dino Meneghin è ancora il simbolo del basket italiano. Le fa piacere o non ne può più?

«È un onore, ma non è un bene per la pallacanestro. Sarebbe tempo di pensare a Belinelli, Mancinelli, Bargnani, volti nuovi, talentuosi che hanno davanti un futuro incredibilmente bello se avranno fortuna e voglia di lavorare. Bargnani, ne sono sicuro, in Nba non sarà una meteora, ha tutto per difendersi dal pregiudizio che sempre incontra laggiù un bianco non americano».

  • Anche a lei offrirono l’Nba, che cosa la convinse a dire di no?

«Ho rinunciato un po’ perché mi ero rotto il menisco, che a quel tempo poteva pregiudicare la carriera, un po’ perché, per noi che eravamo considerati dilettanti, una sola partita in Nba significava professionismo: non sarei mai più rientrato in Nazionale e avrei potuto tornare in un club italiano solo facendomi tesserare come "straniero"».

  • Però il menisco rotto non l’ha fermata. A 44 anni stava ancora giocando. Non l’ha mai preoccupata un figlio sulle sue orme?

«No, perché capivo le sue sensazioni e le sue emozioni, mi piaceva l’ambiente: ero contento che lo frequentasse».

  • Ha mai temuto che gli sarebbe pesato troppo il nome?

«Sì, da subito. Da quando bambino ha toccato il primo pallone lui non è stato Andrea, ma "il figlio di Dino Meneghin". Di sicuro non l’ha aiutato, ma aveva talento e nello sport le sentenze arrivano dal campo».

  • E il campo ha dato ragione a lui.

«Peccato che debba lasciare a 32 anni. Oggi l’età si è spostata in avanti, ai miei tempi a 27 anni eri considerato vecchio, oggi sei nel pieno della maturità atletica. Però per reggere a lungo devi avere il fisico che ti sostiene».

  • Andrea farà l’allenatore. È difficile relazionarsi quando si è ancora così vicini al campo o è un vantaggio?

«L’allenatore deve insegnare delle cose, deve dirti come farle. Il giocatore deve un po’ subire il carisma, e l’eccesso di confidenza può essere di ostacolo. Andrea dovrà trovare l’equilibrio tra l’amicizia che ha con i compagni e l’autorevolezza del ruolo, e poi dovrà studiare. Un bravo giocatore non è automaticamente un bravo allenatore. Bisogna aggiornarsi di continuo e se alleni i ragazzini, come vorrebbe lui, devi essere un esempio in campo e fuori».


  • Lei oggi "segue" la Nazionale, qual è il suo ruolo esattamente?

«Un "misto griglia", come termine tecnico sono un dirigente accompagnatore. Durante l’anno faccio pubbliche relazioni, quando sono con la squadra faccio la chioccia, perché i giocatori mi vedono come un ex compagno e hanno più confidenza con me che con Charlie Recalcati, che è un bravissimo allenatore, tanto che spesso mi chiedo che ci sto a fare. A volte dò un suggerimento tecnico, altre volte ricordo di mettere il calzino con lo sponsor giusto. Così poi mi prendono in giro: dicono che sono quello che si occupa dei calzini».

  • Non male per uno che ha esordito sbagliando le scarpe.

«Da ragazzino facevo atletica leggera. Arrivato a Varese a scuola trovai un professore che allenava contemporaneamente la squadra della scuola e le giovanili dell’Ignis. Mi vide lungo e mi suggerì di provare a giocare a basket. Tornai a casa e chiesi a mia madre scarpe da pallacanestro. Allora decidevano le mamme e il giorno dopo mi presentai con le scarpe rosse. Fu come andare all’allenamento dell’Inter con la maglia del Milan: ho scoperto così che le scarpette rosse erano il tratto distintivo di Milano, avversaria storica di Varese. Mia madre non sapeva, ma forse ha segnato un destino: a Milano avrei vinto anni dopo cose importanti»

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